Con un acronimo che suona ironico rispetto alla situazione in cui si trovano, i luoghi dove stranieri di diverse nazionalità sono accolti, in attesa di ultimare le procedure che li porteranno al riconoscimento dello status di “rifugiato politico” sono denominati C.A.R.A (Centro di Accoglienza per Richiedente Asilo).
In Italia ne esistono attualmente 11: 5 a Trapani, 1 a Caltanissetta, 1 a Crotone, 1 a Foggia, 1 a Brindisi, 1 a Roma (Castelnuovo di Porto), 1 a Gorizia. In totale i C.A.R.A sono in grado di ospitare 998 persone e altre 2337 persone in luoghi che sono sia C.A.R.A che C.D.A (Centri di Accoglienza).
Il 29 novembre del 2009, 137 profughi afgani che vivevano nella “Buca” sono stati trasferiti nel centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto a circa un’ora da Roma, gestito dalla Croce Rossa. Quando siamo andati a visitare il C.A.R.A il 31 marzo del 2010, il numero degli afgani trasferiti dalla “Buca” era diminuito e rappresentava un’esigua minoranza rispetto ad altre etnie (principalmente nigeriani) che vivevano nel centro. Molti di loro erano stati trasferiti di nuovo in centri di accoglienza per l’emergenza freddo e in particolare al Forlanini.
Ad accompagnarci nella visita al CARA c’è stata la Croce Rossa che gestiva il centro e la prefettura che aveva autorizzato la visita.
Il C.A.R.A di Castelnuovo di Porto è un grosso blocco di cemento di proprietà dell’INAIL. Lungo e basso è organizzato con spazi comuni al pian terreno e le stanze al piano superiore.
E’ improprio associarlo alla dimensione di provincia del paese di Castelnuovo di Porto da cui dista circa 10 km, così come è ugualmente difficile considerarlo un luogo alle porte della città di Roma, soprattutto per chi vi alloggia.
La maggioranza delle persone che sono ospitate nel CARA non hanno un lavoro e, senza un’entrata anche minima, prendere un autobus per raggiungere la città e cercare un impiego non è facile. Intorno alla struttura di cemento sono stati allestiti piccoli spazi satelliti, prevalentemente tende o prefabbricati per attività supplementari: corsi di lingua italiana, o assistenza psicologica e una moschea per la preghiera. In alcuni giorni della settimana le persone del centro organizzano un piccolo bazaar dove vendono o scambiano oggetti: un modo per incontrarsi, per guadagnare qualche soldo. Forse un modo per ricreare un atmosfera di mercato e incontro vissuta altrove tanto tempo fa, prima della necessità di lasciare la propria terra e la propria vita, prima dell’inizio di una lunga fase di transizione e migrazione cominciata con la speranza di radicarsi altrove e ricominciare. Il viaggio dentro il CARA è durato poco più di un’ora. Un’occasione per incontrare tanti volti e incrociato tanti sguardi: interrogativi, impauriti, smarriti. Sguardi dietro i quali si coglie l’attesa e la paura: l’attesa per il riconoscimento dello status di rifugiato e la paura per un futuro incerto una volta ottenuto.